«La luce fa parte del nostro DNA», intervista a Habits Studio

Un equilibrio perfetto tra bellezza, efficacia e semplicità: questa la ricerca alla base dei lavori di Habits Design Studio, realtà internazionale di design e innovazione, fondata a Milano nel 2004 da Innocenzo Rifino e Diego Rossi.

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Un equilibrio perfetto tra bellezza, efficacia e semplicità: questa la ricerca alla base dei lavori di Habits Design Studio, realtà internazionale di design e innovazione, fondata a Milano nel 2004 da Innocenzo Rifino e Diego Rossi, entrambi laureati in disegno industriale al Politecnico di Milano.

 

L’approccio multidisciplinare e l’attenzione verso l’applicazione pratica delle nuove tecnologie guida il lavoro di un team internazionale oggi composto da trenta persone. Il focus di Habits rimane sempre l’ambito dell’interaction design, «per aiutare le aziende a costruire prodotti in grado di definire il futuro», ma in quasi 20 anni di attività lo studio si è confrontato con i progetti più disparati, dall’illuminazione alle attrezzature industriali, dai prodotti digitali agli oggetti del quotidiano per brand come Haier, Panasonic, Braun, Schindler, Comelit, De Longhi, Martinelli, Luceplan, Flos.

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Pluripremiati con i riconoscimenti più ambiti – ADI Index, Good Design, Red Dot Design Award, Design Plus – Rifino e Rossi non si fermano mai. Tra le più recenti realizzazioni l’installazione Sincronia, un’arena luminosa interattiva mostrata al pubblico durante l’ultimo Fuorisalone negli spazi del Superstudio Più in Zona Tortona che ben sintetizza la filosofia dello studio. «Attraverso questa ricerca progettuale – spiegano i fondatori – abbiamo messo in scena alcuni aspetti delle conoscenze più avanzate che sviluppiamo come Habits Design.

I progettisti che hanno scritto la storia del design italiano studiavano i processi di fabbricazione, sperimentavano con tubi e lamiere, esploravano lo stampaggio a iniezione. Realizzavano stupendi prototipi di legno per capire la forma, le dimensioni, l’ergonomia. Accanto a queste pratiche, noi oggi studiamo l’esperienza del prodotto. Impariamo a gestire quello strato digitale che circonda il prodotto e lo mette in relazione con chi lo usa. Le ricadute di quest’opera sperimentale portano all’evoluzione di prodotti elettronici in cui l’esperienza di interazione, lo scambio di informazioni tra il prodotto e l’utente sono decisivi. In studio realizziamo prototipi che definiamo “ad alta fedeltà” perché sono molto vicini alla realtà dell’esperienza digitale e interattiva che potrà avere l’utilizzatore. Indagando la danza, il gesto, la luce costruiamo una relazione umanistica: un dialogo fra le persone e il prodotto. Con le conoscenze derivanti da questo modello, possiamo ipotizzare un futuro di prodotti a reazione emotiva in cui la luce è distribuita nella forma, muta nel tempo ed è sensibile al contesto»

 

Dal 2004 a oggi la tecnologia è sempre stata al centro dei vostri progetti. Come è cambiato il vostro approccio al lavoro in questi anni e quali sono le innovazioni che vi hanno permesso di progredire nella vostra ricerca?

«Da quando abbiamo iniziato a lavorare la tecnologia si è evoluta in un modo straordinario, una quantità di innovazioni sono diventate di uso quotidiano e questo ha contribuito a renderle oggetto del nostro lavoro. Il LED ha modificato il modo di progettare e utilizzare la luce. Il passaggio dell’oggetto lampada da dispositivo elettromeccanico ad elettronico e la miniaturizzazione hanno reso possibile svincolare il progetto della luce dalla forma le caratteristiche della sorgente luminosa e hanno permesso di disegnarne il comportamento, l’interazione con l’utente e l’ambiente. Un’altra tecnologia che ha cambiato il nostro modo di lavorare è stato l’Open Software e Hardware, in particolare la piattaforma italiana Arduino (una scheda elettronica ideata interamente in Italia, a Ivrea, che viene utilizzata nella didattica, per costruire rapidamente prototipi o robot e nell’ambito della domotica N.d.R.). La possibilità come designer di operare sull’elettronica attraverso prototipi e programmazione ha permesso di progettare aspetti dei prodotti che prima ci erano preclusi: non ci limitiamo alla forma ma immaginiamo anche il comportamento pensando all’esperienza d’uso dell’oggetto.

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Qual è il vostro metodo di lavoro e il vostro approccio alla progettazione? Quali professionalità appartengono oggi al vostro team?

 «Come già accennato, il nostro progettare si svolge su due livelli interconnessi: il disegno della forma fisica e il disegno del livello di interazioni che avvolge il prodotto e il suo utilizzo. Gli strumenti tipici della cultura del progetto per la ricerca e visualizzazione non sono più adeguati. Per padroneggiare i due livelli progettuali abbiamo, nel tempo, costruito un sistema di competenze che permettano di esperire i nostri progetti integrando competenze di prototipazione, elettronica, coding, visual e motion design».

 

Che rapporto avete con la luce?

 «La luce fa parte del nostro DNA progettuale. È stata la nostra prima area di progetto, ci affascinava – rispetto ad altri settori abituali del design in Italia – per la determinante componente tecnologica. Inoltre, nel progetto di un apparecchio di illuminazione l’effetto è importante quanto la forma, è un progetto multi-livello».

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Avete disegnato diversi apparecchi per l’illuminazione: che cosa è bene tenere in considerazione quando si progetta una lampada?

«Nei nostri progetti abbiamo sempre cercato la leggerezza, l’essenzialità della sintassi espressiva, quasi l’assenza della forma. Pensiamo sia una caratteristica importante per un progetto di luce perché permette di rendere tangibile le qualità immateriali dell’energia».

 

All’ultimo Fuorisalone la vostra installazione interattiva Sincronia ha indagato la relazione tra movimento, luce e suono. Che cosa vi ha ispirato e cosa volevate comunicare?

«Sincronia fa parte del nostro programma di progetti di ricerca. All’interno dello studio indaghiamo continuamente nuove tecnologie e possibili campi di applicazione per sviluppare le nostre competenze e sensibilità progettuali. Con questa installazione volevamo portare il nostro campo di studio dell’interazione dalla scala del prodotto a quella dello spazio. Fino ad oggi l’interazione sui nostri prodotti era legata ad una prossemica del gesto. Nel caso di Sincronia, abbiamo voluto esplorare il corpo e il sistema sensoriale vestibolare come modo di interazione naturale».

C’è qualcosa che non avete ancora disegnato ma che vi piacerebbe progettare?

«I campi in cui ci piacerebbe cimentarci sono svariati, ma se dovessimo citarne alcuni pensiamo alla robotica autonoma che presto diventerà comune negli spazi di vita e nella mobilità. Sono ambiti in cui potrebbe avvenire un salto tecnologico rilevante e in cui pensiamo di poter dare un contributo».

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