Cover: Ethereal Natures. Courtesy Radiante Light Art Studio
Dalle installazioni site-specific come Worlds of Light alla recente Cartografía de un Rayo, presentata al Volumens Festival 2025, Radiante dissolve i confini tra fisico e digitale, invitando lo spettatore a diventare coautore dell’opera. In questa intervista, Manuel Conde racconta la visione transdisciplinare dello studio, il valore della percezione soggettiva e la costante ricerca di equilibrio tra scienza, emozione e spazio — un laboratorio che usa la luce per pensare, emozionare e costruire nuovi mondi.
Radiante utilizza la luce non solo come mezzo estetico, ma anche come strumento per trasmettere emozioni e idee complesse. Come riesce a trasformare lo spazio e modellare la percezione dello spettatore?
«Nel mio lavoro, questo avviene tramite un’analisi preliminare, l’intuizione e un’intenzione chiara. Tutto può essere strumentalizzato per trasmettere e alterare la percezione: studiamo come le persone percepiscono le cose, i loro riferimenti culturali e le aspettative. È una chimera, certo, ma più che un fine, questo modello diventa una guida. Con queste informazioni, possiamo modellare la luce, giocando su atmosfera, forma, colore e intensità, per condurre lo spettatore verso stati che si collegano al suo mondo interiore».
Utilizzate laser, realtà aumentata e sistemi digitali interattivi. In che modo la tecnologia trasforma l’esperienza immersiva e il rapporto del pubblico con l’opera?
«Dall’esperienza immersiva del Photorama dei fratelli Lumière nel 1920, l’arte si è evoluta: prima con l’immagine in movimento, poi con l’interattività, la tecnologia accessibile, la generazione in tempo reale e ora con l’intelligenza artificiale. Questi strumenti rendono più semplice creare esperienze immersive, ma hanno due conseguenze: più idee e più “spazzatura”. Il pubblico, invece, ridefinisce il proprio ruolo rispetto all’opera: cerca immersione, connessione e, a volte, una gratificazione narcisistica. La rivoluzione più grande è il modo in cui le persone sono state educate a rapportarsi all’arte. Per riassumere, la tecnologia raramente determina cosa immaginiamo: prima decidiamo cosa vogliamo creare e poi troviamo il modo migliore per realizzarlo».
Le vostre installazioni spesso inducono stati percettivi alterati, invitando lo spettatore a vivere la luce come presenza fisica. Qual è l’intenzione dietro questo approccio e quale impatto emotivo ha sul pubblico?
«L’intenzione non è mai univoca. Alcune opere hanno scopo puramente estetico; altre cercano un’interazione corporea diretta con la luce e lo spazio. Un elemento costante è mostrare la luce come materiale scultoreo e architettonico, capace di modellare lo spazio e alterare la percezione. Il pubblico è molto vario: umore, background e contesto influenzano il livello di connessione. Per questo restiamo presenti durante le esposizioni, osservando le reazioni, che diventano preziose indicazioni per affinare continuamente le nostre scelte creative».
Cartografía de un Rayo, presentata al Volumens Festival (Valencia, 2025), esplora il rapporto tra luce, materia e mondo digitale. Cosa rappresenta per voi questa installazione?
«Cartografía de un Rayo esplora come la forma modella la luce generandone di nuova. L’opera esiste in due dimensioni: una scultura fisica e un suo gemello digitale, che ne riflette e amplifica il comportamento. Ci interessa il confronto tra i due livelli: il digitale, dove le leggi sono poche e ci sono limiti dati dai sensori, e il fisico, soggetto a infiniti fattori. Questo confronto sintetizza la nostra esplorazione del confine tra percezione materiale e dimensione virtuale».
Nelle vostre opere musica, architettura e performance si fondono in un linguaggio multisensoriale. Quale ruolo assumono le collaborazioni interdisciplinari nel vostro processo creativo?
«Le collaborazioni sono fondamentali per Radiante Light Art Studio. Il nostro nucleo è piccolo, ma si circonda di professionisti e artisti: qualcuno dal settore bidimensionale (graphic design, motion graphics), dal tridimensionale (architettura, 3D), tecnico e specialisti nella materializzazione. Le divergenze iniziali sono valorizzate e portano a una naturale convergenza. Con partner esterni, due identità si incontrano: partiamo senza premesse, con sessioni di improvvisazione — sonora, visiva, luminosa, poetica o di danza — per trovare punti di contatto. Poi analizziamo l’esperienza, definiamo il quadro concettuale e ciascuno lo rielabora secondo la propria identità. Un esempio è Ruido Blanco, con Luna y Panorama: la sinergia ha determinato radicalmente il risultato finale e ha permesso di abitare la deregulation emotiva mantenendo equilibrio».
In Worlds of Light, al Centro Botín di Santander e al Bright Festival di Firenze, l’interazione del pubblico è parte integrante dell’opera. Come rappresenta la vostra idea di “luce partecipativa”?
«Worlds of Light è una scultura luminosa site-specific, composta da fasci laser rossi. Ci ispiriamo a riferimenti collettivi: il pubblico percepisce il dispositivo e si sente invitato a partecipare. Muovendosi e interrompendo i fasci, modula l’opera e crea nuove composizioni in tempo reale. Partiamo da una composizione iniziale come quadro di riferimento; l’opera si completa nel dialogo con chi la attraversa. Così la “luce partecipativa” diventa co-autorialità: non si contempla l’opera, ma la si costruisce con il corpo e la presenza».
Il vostro percorso artistico si basa su un’indagine empirica della luce e dello spazio. L’arte basata sulla luce può ampliare la nostra percezione del reale?
«Sì, ma non in modo uniforme. Vogliamo riassegnare significato allo spazio, spesso percepito intuitivamente dal pubblico. Partiamo da modelli percettivi consolidati per introdurre rotture che spostano abitudini sensoriali o inducono stati emotivi specifici. Alcune opere parlano alla mente, ma la maggior parte viene percepita con il corpo prima che con le parole. Per coglierle davvero, occorre ascoltarlo e restare in contatto con le sensazioni fisiche».




