Se la luce diventa una Stranger Thing(s)

Un viaggio nella fotografia di Stranger Things — dalle ombre “horror” delle prime stagioni ai colori saturi in pieno stile anni ’80, per comprendere come la luce abbia plasmato una delle estetiche più iconiche della TV contemporanea.

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Highlights

Cover: Stranger Things, prima stagione. Courtesy Netflix 

Era il 2016 quando Stranger Things arrivava per la prima volta sugli schermi Netflix, da un’idea di Matt e Ross Duffer, noti come i Duffer Brothers. Una serie che ha conquistato fin da subito grazie alle personalità complementari di una piccola banda di nerd — Mike Wheeler, Dustin Henderson, Lucas Sinclair e Will Byers — a cui si aggiunge presto Eleven, misteriosa e potentissima, e a quel mix di elementi capaci di immergerci completamente negli anni ’80: biciclette, Dungeons & Dragons, walkie-talkie. Sullo sfondo di quella che è ormai una serie cult riecheggiano le pellicole iconiche dell’epoca, da E.T. a I Goonies, fino a Stand by Me. Ma Stranger Things è riuscita ad andare oltre il citazionismo facile, soprattutto attraverso il percorso interiore che ciascun personaggio, piccolo o grande, compie, trasformando la serie da una semplice sci-fi in un racconto di formazione che descrive con precisione chirurgica quel passaggio intermedio, fragile e difficile da definire, tra l’essere bambini e l’essere adulti. E la luce, in questo processo, ha avuto un ruolo chiave in ogni stagione.

1. Courtesy Netflix

Stagione 1: La luce come segnale dell’ignoto

Ambientata nel 1983, la prima stagione viene affidata al direttore della fotografia Tim Ives, che resterà sul progetto fino alla terza. A lui spetta il compito di ricostruire l’atmosfera visiva dell’epoca: la serie è girata con camera RED Dragon 6K e lenti Leica Summilux-C, scelte per la loro capacità di restituire un’estetica morbida, quasi analogica, con una profondità di campo ridotta. Negli interni domestici domina una luce a tungsteno calda, che contrasta nettamente con il blu freddo e lunare che filtra dalle finestre nelle scene notturne. È il classico moonlight anni Ottanta, un rimando diretto al cinema di Steven Spielberg, che si intreccia con una delle immagini più iconiche della serie: l’inquietante sfarfallio delle luci, in particolare quelle natalizie appese da Joyce Byers (Winona Ryder) nel soggiorno di casa.Capiamo presto che ogni sfarfallio segnala una possibile “presenza”, da quello che poi capiremo essere il Sottosopra: verso metà stagione, Joyce trascrive le lettere dell’alfabeto sul muro e collega una luce a ciascuna di esse per comunicare con il figlio Will, misteriosamente scomparso. Le lampadine colorate si accendono e si spengono componendo messaggi (“RIGHT HERE”, poi “RUN”). È il primo segnale a chiarire che a Hawkins, bene e male non sono dimensioni astratte né distanti.

2. Courtesy Netflix

Stagione 2: La luce infetta

Con la seconda stagione, ambientata un anno dopo nel 1984, i toni si fanno decisamente più cupi. Non tanto perché aumentino le scene spaventose in senso stretto, quanto per una nuova e irreversibile consapevolezza: i mostri esistono. Le location chiave — le viscide gallerie sotterranee scavate dal Mind Flayer, i corridoi al neon del laboratorio di Hawkins, perfino le scene legate a Will, che in questa stagione subisce una vera e propria infestazione mentale — sono attraversate da lampi verdastri, riflessi acquosi, chiaroscuri instabili e deformati. È una palette di contrasti tipicamente anni Ottanta, fatta di tubi fluorescenti azzurro-verdi accostati a lampadine incandescenti arancioni, figlia di una tecnologia luminosa ancora pre-LED. Quando la normalità sembra riaffiorare — nel ballo di fine stagione, lo Snow Ball — la luce torna calda e dorata. Ma è solo una tregua, destinata a durare pochissimo.

3. Courtesy Netflix

Stagione 3: Il colore come inganno

Con la terza stagione — estate 1985 — Stranger Things cambia registro visivo in modo sorprendente, quasi spiazzante. Tim Ives torna inizialmente come direttore della fotografia, ma viene affiancato dall’australiano Lachlan Milne, scelto dai Duffer per girare metà degli episodi. È l’estate di Hawkins e, per la prima volta, i personaggi si muovono in pieno giorno, all’aperto: piscine pubbliche, parcheggi, strade percorse in bicicletta sotto un sole abbacinante. Le riprese in RED Monstro 8K Full Frame, abbinate a lenti Leica Thalia, restituiscono immagini ampie e brillanti, con un tono volutamente sognante.

Tutto converge in un unico luogo, lo Starcourt Mall, simbolo perfetto dell’America reaganiana: qui Steve e Robin lavorano, ed è qui che Eleven e Max vivono momenti leggeri e spensierati, come due adolescenti qualunque. Ovunque si guardi compaiono insegne al neon rosa e blu, luci al mercurio verde acqua, stroboscopi da luna park, insieme all’immancabile tungsteno caldo delle lampadine classiche. Per la prima volta Stranger Things ci avvolge nel colore, ma è solo un’illusione perché proprio all’interno di questo Mall avviene lo scontro con il Mind Flayer, nella sua terrificante forma fisica fatta di membra fuse. Le luci cedono, le sirene lampeggiano in rosso, e il centro commerciale, da piccolo paradiso artificiale, si trasforma in un teatro dell’incubo.

4. Courtesy Netflix

Stagione 4: La luce del trauma

La quarta stagione segna un punto di svolta, sia narrativo che visivo. Siamo nel 1986 e, per la prima volta, i protagonisti non condividono più lo stesso spazio: al contrario, sono dispersi in contesti radicalmente diversi — la quieta California suburbana, la prigione sovietica in Kamchatka, e naturalmente Hawkins. Dietro la macchina da presa arriva un nuovo direttore della fotografia principale, Caleb Heymann, affiancato da Brett Jutkiewicz e dal “veterano” Lachlan Milne. Cambia anche la tecnologia: abbandonate le camere RED, il team sceglie le Arri Alexa LF (large format digital), abbinate a lenti vintage anni Sessanta, per ottenere un’immagine più organica, materica, volutamente “old school”. A Hawkins le notti restano blu e le foreste si fanno sempre più inquietanti, ma con l’arrivo di Vecna la luce subisce una trasformazione: diventa teatrale, fatta di fasci netti, attraversata da verdi cadaverici, rossi violenti, blu innaturali. Per rappresentare i “mondi mentali” delle vittime, Heymann e i Duffer si rifanno apertamente all’horror anni Ottanta, da pellicole come Nightmare on Elm Street a Hellraiser. Il Sottosopra viene definito dallo stesso Heymann come «uno spazio liminale tra una notte di luna normale e una sorta di crepuscolo perenne»: un segno ben visibile del trauma.

5. Courtesy Netflix

Stagione 5: Due luci nel campo di battaglia

Arriviamo così alla quinta e ultima stagione, concepita — come hanno dichiarato gli autori — con un intento preciso: riprendere il linguaggio visivo delle origini ed estremizzarlo. Dietro la macchina da presa ritroviamo il team della quarta stagione: Caleb Heymann e Brett Jutkiewicz si dividono i compiti come direttori della fotografia. Prosegue anche la scelta tecnica di Alexa LF abbinate a lenti vintage, per un’immagine sempre più analogica e materica. A questo si aggiunge l’impiego della tecnologia Auroris, un grande sistema LED overhead utilizzato per simulare cieli infuocati — gli stessi che Steven Spielberg aveva elogiato in una lettera ai Duffer Brothers. Ma ora Hawkins è un vero campo di battaglia: un luogo di confine tra due mondi, dove la luce stessa è instabile, contesa. Quel blu iconico viene costantemente violato da bagliori rossi spettrali, da improvvisi squarci di un altro mondo. Due registri luminosi si scontrano senza tregua: da una parte la luce dell’innocenza — blu lunare, bianco stellare — dall’altra quella dell’apocalisse e della rovina — rosso sangue, arancione fuoco, verde tossico. In questo senso, è la stessa fotografia di Stranger Things a chiudere il cerchio: la luce, nata come “termometro della paura”, diventa anche un simbolo di resistenza, dell’umanità che non cede all’oscurità.

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