La fotografia di Emily in Paris trasforma Parigi in un sogno disneyano

Una Parigi da favola tra luce, filtro e sogni quasi accessibili: la fotografia di Emily in Paris, a cura di Steven Frierberg, trasforma la città in un sogno Instagrammabile, tra Disney e marketing.

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“There’s a light that never goes out”: probabilmente gli Smiths, scrivendo la loro canzone, non avrebbero immaginato la Parigi di Emily in Paris, serie di Darren Star, una rom-com vaporosa e contemporanea made in Netflix. Questa Parigi è raccontata come una città satura di luce e di adorabili cliché, dove l’estetica pop incontra la rêverie disneyana. A questo proposito, la fotografia della serie, di cui si è occupato Steven Fierberg, è esasperata e gioiosa, surreale e naïf, light e brandizzata. Anzi, sembra che questa Parigi di Emily cominci a scintillare sullo schermo prima ancora che appaia la N rossa del servizio di broadcasting. 

Ma cosa c’è di Disney nella storia di una marketing specialist americana a Parigi? E perché questo incontro trova compimento nella manipolazione virtuosa della luce? Emily in Paris è un esempio di come la fotografia possa essere utilizzata non solo come strumento tecnico o come costruttore di vibes, ma anche come una chiave percettiva. E l’uso della luce rappresenta qualcosa di unico nella serie di Darren Star. È disneyana perché splende, ma ha anche un legame concettuale con la cultura visuale e consumistica dal 2010 in poi, con la nascita di Instagram e il predominio della foto sul testo.

La Parigi di Emily: una città che brilla più della realtà

Disney è un mondo di pochi elementi: valori forti, fanciull, famiglie reali, ragazze dal buon cuore, streghe cattive e palazzi d’oro. Non è la realtà, ma una sua versione più pulita. Allo stesso modo, la Parigi di Emily è più pulita di quella reale (anche letteralmente). E quella della serie non è una luce realistica, non è nemmeno naturalistica. È una luce ottimizzata. 

Diventa mediatrice tra spettatore e storia, giocando con la percezione. Gli spazi urbani di Parigi, viali, terrazze, uffici e bistrot, sembrano le pagine di un catalogo lifestyle, dove ogni fonte luminosa è studiata per sottolineare un effetto idealizzato. Un po’ come un universo da film d’animazione, dove ai margini delle strade non ci sono lattine o bottiglie di vetro ma timidi fiorellini. Questa è la Parigi in cui vediamo evolversi la protagonista: un universo metropolitano in stile un po’ Fantasia, un po’ Nosedive, l’episodio di Black Mirror in cui la realtà prende la forma di una rivista patinata. Qui la luce splende sempre, ma nessuno si prende troppo sul serio.

Una scelta, quella di Steven Fierberg, che porta con sé conseguenze sul piano psicologico, sociologico e culturale. Sul piano psicologico, trasmette sicurezza e leggerezza emotiva; sociologicamente, propone un ideale di vita aspirazionale; culturalmente, rafforza una narrazione estetizzata della realtà urbana europea, con tanti temi paralleli, anche oscuri come l’overtourism e la capitalizzazione delle immagini da parte dei social.

Il piano narrativo risulta complementare alla luce di Fierberg, una luce apollinea: calda, diffusa, senza coni d’ombra o angoli spigolosi, in grado di smussare le contraddizioni troppo nette. I contrasti, anche quelli tra i personaggi, si stemperano in una palette di colori pastello, superfici levigate cieli sempre sereni, la Tour Eiffel che brilla come un gioiello al chiaro di luna

Certo, la vera Parigi non è questa, ma nella storia di Darren Star si rianima fotograficamente, diventa allo stesso tempo protagonista e fondale, un retroterra emotivo che riflette l’immaginario. Quando si arriva davvero a Parigi i colori non sono così vividi. Anzi, ci sono le metro affollate, i monopattini uguali a quelli di casa, lo smog, gli outfit campy, i rifiuti, il traffico, le nuvole grigie. Elementi che non tolgono poesia alla città ma sul piano reale la articolano in modo più complesso, forse più adulto. Emily in Paris però sceglie di non farci scendere dalla giostra di Montmartre.

Una Parigi da favola: luci, filtri e sogni a portata di feed

Questa trasfigurazione dello spazio urbano non è qualcosa di riduttivo. Al contrario, chi lavora con la luce – nel cinema, nell’architettura, nel design – sa quanto sia complesso realizzare uno spazio che trasmetta bellezza senza perdere la profondità. La disneyficazione visiva di Emily in Paris è il risultato di un progetto fotografico che lavora sulla semplicità apparente.

Ogni inquadratura è calibrata, ogni fonte luminosa contribuisce a costruire una Parigi aumentata, dove si trova l’amore, il lavoro dei sogni e magari anche il piatto forte di uno chef stellato. È un uso della luce che trasforma la città nel set di uno spot dove ogni angolo è scenografico, ogni ora del giorno è dorata come i tramonti su Instagram per #sunsetlovers. La sublimazione è ovunque, dagli appartamentini del Quartier Latin al compleanno improvvisato nella strada sotto casa, dai night rutilanti a Versailles fino ai giardini di Claude Monet a Giverny, luoghi del cuore (e di Instagram) per chi ama la serie.

Questa scelta precisa è legata a una regia fotografica che conosce le regole della percezione e le applica per generare desiderio. Come le favole di Walt Disney, questa Ville Lumière è irreale ma non così poco verosimile. Anzi, noi spettatori crediamo che possa esistere davvero. Anche solo per pochi minuti. Come la possibilità che una marketing specialist possa conquistare tutti: i clienti, le CEO alla Miranda Priestly e gli uomini, francesi, inglesi, italiani, più belli in circolazione. È proprio la luce ad amalgamare tutto, il distacco dalla realtà e il sogno che regge l’impianto visivo della serie.

Dietro la luce di Emily in Paris 

«Parigi è una città ossessionata dalla bellezza» ha dichiarato Steven Fierberg, ASC, direttore della fotografia della serie, in un’intervista ad American Cinematograph. Nato a Detroit ma newyorchese nel cuore e losangelino per professione, Fierberg ha dimostrato sensibilità nel confezionare un contesto di arte, rigore formale e parossismi estetici per raccontare la storia dell’americana media, pragmatica e iperperformante, attratta da concetti ontologicamente più europei come l’arte, la sensualità, la bellezza. 

Per disneyficare, Fierberg ha utilizzato camere Arri Alexa LF abbinate a ottiche Signature Prime, in grado di restituire immagini nitide e pulite ma con una resa cromatica morbida. L’uso di filtri Tiffen Glimmerglass (in particolare il filtro 1/4) ha permesso di aggiungere un tocco di glamour alle scene, come ha raccontato il direttore nel corso dell’intervista, smorzando e sfocando leggermente i punti luce per ottenere quell’effetto etereo tanto caratteristico di Emily in Paris.

La resa dei flare è stata controllata per mantenere un’estetica lucida ma non invadente. Le ottiche Signature, con la loro neutralità, per Fierberg hanno rappresentato un canvas perfetto su cui lavorare, lasciando alla luce il compito di definire la scena.

Nei contesti con una bassa luminosità, come l’iconica scena a Le Château de Sonnay, dove si trova la sontuosa residenza della famiglia di Camille, Fierberg ha optato per alti ISO (fino a 1200) e tempi di otturazione aperti a 270°, combinati con aperture molto ampie per catturare ogni variazione luminosa generata dalle sole candele. Questo approccio ha permesso di mantenere la coerenza visiva anche in condizioni complesse.

In esterni, la filosofia di questo direttore della fotografia è ancora più essenziale: modellare la luce naturale attraverso riflettenti bianchi e negativ fill neri per creare contrasto e definizione, senza l’aggiunta di illuminazione artificiale. L’uso di frame rettangolari 1×2 metri per la diffusione, più pratici e funzionali rispetto ai 4×4 tradizionali, mostra come anche la scelta degli strumenti influenzi profondamente l’impatto visivo. Disney quindi esiste anche nelle scene con la luce naturale? Sì, se viene scelta e messa in forma nel modo giusto.

Eppure, come Fierberg stesso ammette, una delle sfide più grandi è stata quella di creare bellezza anche nelle location meno favorevoli. In una scena ambientata in un club buio e anonimo, l’intero ambiente è stato “dipinto di luce” per ottenere una resa visiva all’altezza del look generale della serie, con l’utilizzo mirato di faretti PAR 36 (faretti teatrali a fascio stretto), atmosfere fumose e retroilluminazione. 

«Avevamo bisogno di contrasto su quello sfondo, con elementi sia molto luminosi che molto scuri, per dare vita alla scena. Con i nostri talentuosi elettricisti e macchinisti, rispettivamente Stéphane Bourgoin e Pascal Delaunay, e una troupe fantastica, credo che abbiamo trasformato quella piccola stanza buia in una delle scene più belle della stagione» ha dichiarato Fierberg.

Il professionista non ha mai parlato di disneyficazione, ma è chiaro che l’universo luminoso di Emily è stato costruito nei minimi dettagli, in modo da restituire una Parigi da sogno, un sogno accessibile, con qualche punto di contatto con la quotidianità dei telespettatori. Come i brand, onnipresenti e reali, le campagne, i brief, e gli intrighi d’amore, che risultano un elemento universale sotto qualunque luce.

In Emily in Paris la luce non è solo atmosfera: è costruzione del desiderio, sintesi visiva tra sogno e riconoscibilità. È un po’ Disney. E forse, anche per questo, ci crediamo.

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